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Paolo a Troade resuscita un morto
Dagli Atti degli Apostoli 20,7-12
Salpammo da Filippi dopo i giorni degli Azzimi e in capo a cinque giorni raggiungemmo Troade, dove ci trattenemmo una settimana. Il primo giorno della settimana, eravamo riuniti a spezzare il pane e Paolo conversava con loro; e poiché doveva partire il giorno dopo, prolungò la conversazione fino a mezzanotte. C’era un buon numero di lampade nella stanza al piano superiore, dove eravamo riuniti; un ragazzo chiamato Eutico, che stava seduto sulla finestra, fu preso da un sonno profondo mentre Paolo continuava a conversare e, sopraffatto dal sonno, cadde dal terzo piano e fu raccolto morto. Paolo allora scese giù, si gettò su di lui, lo abbracciò e disse: «Non vi turbate; è ancora in vita!». Poi risalì, spezzò il pane e ne mangiò e dopo aver parlato ancora molto fino all’alba, partì. Intanto avevano ricondotto il ragazzo vivo, e si sentirono molto consolati.
“Un ragazzo di nome Eutico...”, cioè Fortunato!
È bella questa figura di ragazzo, di adolescente, appollaiato sulla finestra, attratto da quanto la comunità sta vivendo, ma nello stesso tempo sembra volersene stare un po’ in disparte.
Eutico è simile per tanti aspetti ai giovani che affollano i nostri gruppi e le nostre comunità, ma anche ai giovani che non incontriamo: appollaiati sulle finestre delle stanze dei nostri incontri, attenti a quanto sta succedendo nella stanza, ma anche un po’ fuori, con gli occhi attenti a quanto avviene sulla strada, a quanto stanno facendo gli altri giovani. Un atteggiamento che dice nello stesso tempo uno starci dentro ma anche il non esserci totalmente. Non è forse questo che vogliamo descrivere quando parliamo di pluri-appartenenze, di scelte reversibili? Stanno dentro ma senza perdere di vista quanto succede fuori. Eutico è così l’icona dei giovani che anche noi incontriamo e che ci permette di rileggere la sequenza dei volti che affollano la nostra vita.
Per Eutico la caduta è stata fatale. Confidava nelle sue forze, nella sua giovane età, ma non è riuscito a vincere il sonno ed ha ceduto. Viene raccolto «morto», privo di vita: il suo futuro è ormai chiuso e la sua vita irrimediabilmente perduta. Tutti noi animatori ed educatori ci impegniamo moltissimo e con entusiasmo in parrocchia, in oratorio, nella catechesi, nell’AC, pur dando per scontato che il dopo-Cresima è per la maggior parte di loro “fatale”. E per di più, siamo un po’ come rassegnati di fronte a quella che pare una fuga inevitabile. Ce ne lamentiamo, chiamiamo a responsabilità famiglia, scuola, sport… che non collaborano, delegano, sottraggono i ragazzi ai loro “impegni cristiani”…disapproviamo, recriminiamo… Invece Paolo, davanti alla caduta del ragazzo, non si chiude nel lamento o nell’accusa, agisce!
Paolo «Scese giù». È un verbo che ci ricorda la “discesa” di Gesù, la sua incarnazione, Gesù che scende dal Padre fin negli abissi della condizione umana. Paolo ci insegna che l’educatore non ha altre strade da percorrere che quella di Cristo, che è uscito dal Padre per incontrare gli uomini, e non li ha abbandonati neppure di fronte al rifiuto più totale. Uno scendere che indica solidarietà, condivisione capacità di spartire anche i momenti più difficili, di esprimere la gratuità assoluta di Dio, che non abbandona mai l’uomo e gli si fa accanto con una tenerezza ed una fedeltà senza limiti.
L’apostolo poi «Si gettò su di lui». È un gesto che sembra voler comunicare al morto il proprio calore, il proprio respiro, la propria vita. Quando tutte le parole vengono meno, quando ogni comunicazione sembra esaurita, quando ogni porta si è chiusa, l’educatore può ancora offrire se stesso, la sua dedizione, la sua fedeltà, la sua fiducia che non viene meno, perché la sua fonte perenne è in Dio.
«Lo abbracciò»: un gesto di tenerezza, una fedeltà che non si arresta neppure di fronte alla morte e che, nello stesso tempo è un impegno, un patto di solidarietà, un’alleanza educativa, che si fa carico dell’altro, delle sue ricchezze e dei suoi limiti, ne porta il peso, come il samaritano che carica sul suo giumento il malcapitato. Un farsi carico che cerca vie inedite per tessere il dialogo, che cerca i passi possibili da fare, che si mette alla ricerca di sempre nuove possibili aperture e percorsi ancora inesplorati.
«Non vi turbate, la sua anima è ancora in lui»: chi ama sa vedere la vita nascosta nelle persone. L’amore vede ciò che ad uno sguardo umano sfugge. Noi vediamo adolescenti distratti, analfabeti di pratiche religiose, insofferenti, apatici, insicuri, continuamente in cerca di emozioni sempre più forti, … eppure la loro anima è ancora in loro! Dio è presente in loro, Vita della loro vita; i ragazzi hanno esigenze vitali, non solo intellettuali o morali, che possono trovare appagamento solo nella fede: «Dio arriva prima del missionario» ha scritto il teologo brasiliano Leonard Boff. E noi possiamo dire: “Dio arriva prima dell’educatore”, prima del genitore, prima dell’insegnante, prima del prete. L’educatore, allora, è chiamato allora a coltivare lo spirito di profezia, quello spirito che sa scorgere i segni dell’azione di Dio, della Sua presenza e della Sua fedeltà anche quando sembrano regnare sovrani il disinteresse, la fatica, la deconcentrazione, la presa di distanza… «La sua anima è ancora con lui»: anche noi ci imbattiamo in vite ed avvenimenti nei quali sembra essere stata pronunciata la parola fine. «Il deserto fiorirà»: questa parola profetica deve essere lo sguardo di tutti coloro che vogliono impegnarsi a servizio del Vangelo, certi di un amore che li precede e li supera.
“Poi risalì...” Paolo non dice nulla, non recrimina per la scelta avventata di Eutico. Solo si preoccupa che egli viva, che possa riprendere il suo cammino. Essere educatori significa mettersi a servizio dei giovani perché i cammini bruscamente interrotti possano riprendere. Essere uomini e donne che sanno rianimare, che sanno guidare a scoprire quanto anche le cadute possono insegnare, che infondono coraggio. Uomini e donne che sanno affidare una Buona Novella, una «Parola inaugurale», che riapre il cammino.
“Spezzò il pane”: quello che colpisce maggiormente è che Paolo spezzi il pane prima ancora di vedere il ragazzo riprendere vita. Egli fa eucaristia, ringrazia anche nel cuore della morte. E questo suo rendere grazie apre alla vita. Egli apre la via della vita «rendendo grazie». Così anche oggi colui che è mandato ai ragazzi è solo imparando a rendere grazie che può diventare autentico servitore della vita. Rendere grazie significa riconoscere che questi adolescenti sono amati prima ancora che noi li possiamo amare. Significa riconoscere che questi ragazzi sono preziosi agli occhi di Dio! Significa professare la fede che, anche se nulla si vede ancora, nel loro cuore il Signore è al lavoro e che noi siamo chiamati a collaborare con quanto Egli sta facendo. Solo vivendo nel rendimento di grazie, possiamo vivere la missione senza ansie e pessimismi, ma nella lucidità della fede che sa che neppure la morte può fermare l’amore di Dio. L’eucaristia è così il cibo che permette di attraversare «svegli» la notte, di attraversare il deserto, di camminare nella vita.
“Intanto avevano ricondotto il ragazzo vivo e ne furono molto consolati” Per quel ragazzo, così spavaldo, così sicuro di sé, rivivere vuol dire scoprire il senso ed il valore della comunità. Viene introdotto in essa. Non è più un osservatore esterno. Vivere per lui significa scoprirsi parte viva della comunità. E un senso di pace pervade la comunità, quella pace che nasce dalla scoperta di essere «serva inutile», avvolta dalla forza dello Spirito, il grande protagonista della missione, l’unico capace di dare vita anche nelle situazioni più perdute. Il ragazzo viene restituito non solo alla vita ma anche alla comunità. In quella comunità, nel tessuto di relazioni che la compone, egli vive appieno. E nello stesso tempo la comunità ne esce consolata perché si scopre abitata dalla Vita, e che anche il più piccolo ed il più giovane possono essere la sua ricchezza.